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Cultura

“Senza titolo”. La nuova mostra pittorica di Ignazio Pandolfo  a Spazio Macos

Il rapporto tra l’opera d’arte e il suo fruitore, privilegiato rispetto all’intervento emotivo, inconscio e personalissimo dello stesso autore, come specifica modalità percettiva della pittura astratta di Ignazio Pandolfo, che il prossimo 3 dicembre (ore 17.30), presso lo Spazio Macos di Via Cardines, 16, inaugurerà la nuova rassegna “Senza Titolo”, curata ed introdotta da Mamy Costa. Una pittura che ricusa qualsiasi definizione, sempre più vivace nei colori, originale nelle suggestioni visive, disponibile a tracciare sentieri interpretativi sempre nuovi e inusuali, nell’incessante dialettica tra il quadro e il suo osservatore. L’apposizione di un titolo ad un’opera, così come ad una mostra rappresenta secondo l’artista un atto arbitrario e fuorviante, una sorta di mistificazione che intrappola la creatività in formule e spazi circoscritti, mortificando il suo carattere di universalità. Una scelta precisa quella di Pandolfo, che nell’abbracciare la pittura astratta non intende suggerire alcun contenuto interpretativo, esaltando l’assoluta libertà del fruitore, esattamente speculare a quella dell’autore, che trasfigura sulla tela emozioni interne e istanze inconsce, rendendole disponibili all’incontro con ulteriori sensibilità. Un percorso da vivere a 360 gradi, in cui immergersi spontaneamente, per ritrovare, nelle linee e forme dell’astratto, anche se stessi. Le opere rimarranno disponibili a Spazio Macos fino al 12 dicembre, dal lunedì al sabato dalle 17.00 alle 19.00.

 

La parola all’autore

 

Ignazio Pandolfo, radiologo, già docente ordinario di Diagnostica per Immagini presso il nostro Ateneo, possiede tante anime artistiche. Romanziere, abile narratore e osservatore della realtà, è solito offrire una motivazione critica delle sue scelte artistiche, del modo in cui lui stesso concepisce e inquadra il suo sforzo creativo nell’ambito del panorama culturale contemporaneo, suggerendo ai potenziali fruitori la formula della libertà interpretativa. Il suo osservare e confutare non si fa mai polemica, in quanto espressione di una personale visione dell’arte e delle finalità dell’opera, che può suonare “di rottura”, come tutto ciò che veicola cambiamento e innovazione. Di seguito il suo pensiero e alcune sue dichiarazioni, espresse con il tipico stile conversazionale.

 

 

“… ma chi è questa Pasiphaë?”

“Questa domanda pare sia stata rivolta da Jackson Pollock al critico James Johnson, quando questi lo invitò a cambiare il titolo di un suo quadro che egli invece avrebbe voluto dedicare alla Balena Bianca di Melville.

In realtà non sappiamo se la reazione dell’artista si avvenuta esattamente in questi termini, ma ciò non toglie che oggi il quadro, custodito nel Metropolitan Museum of Art in NYC, sia universalmente noto con un titolo completamente diverso da quello inizialmente concepito dall’autore.

A margine di ciò v’è comunque da dire come nell’immersione contemplativa della suddetta opera sia ardua la percezione non solo della presenza della mitologica madre del Minotauro (Pasiphaë appunto) ma anche di quella della Balena Bianca.

L’episodio, al di là delle connotazioni aneddotiche, dimostra come l’attribuzione di un qualsivoglia titolo a un’opera di pittura astratta e/o informale, vuoi per autonoma decisione dell’artista, ovvero per l’intervento di altro soggetto, sia esercizio quantomeno arbitrario se non addirittura fuorviante e talvolta mistificante.

Certamente diversa è la problematica relativa all’intitolazione delle opere figurative, uso che, come è noto, esprime un’attitudine relativamente recente, che ha preso le mosse a seguito dell’affievolirsi della grande committenza, epoca in cui la imposizione di un titolo non era ritenuta cosa necessaria.

A testimonianza di ciò, v’è la considerazione che oggi ci riferiamo a molte opere dell’arte antica utilizzando titoli attribuiti ex post da storici dell’arte, critici o mercanti.

Per quanto attiene alla figurazione contemporanea (in particolare a quella del Novecento) il titolo per converso, è sempre stato considerato importante non solo per ragioni di mercato, ma anche per meglio contestualizzare il soggetto nell’ottica, locale, temporale, sociale. o filosofica.

Un esempio paradigmatico di contestualizzazione locale e temporale di un’opera figurativa è il titolo “Breakfast at Malibu, Sunday “che Hockney ha attribuito a un dipinto che raffigura una sorta di natura morta con teiera, tazzina e zuccheriera.

Ma dare un titolo a un’opera figurativa può avere anche altre finalità. Ad esempio può servire a decodificare aspetti simbolici e/o onirici (come nella pittura surrealista, simbolista o metafisica) ovvero a definire un programma estetico/ideologico del tutto particolare (futurismo, dadaismo etc.. ).

Alla luce di quanto sopra, che senso ha, invece, l’attribuzione di un titolo nella pittura astratta/informale; laddove ogni necessità di contestualizzazione in termini razionali risulta superflua?

Altra domanda: È possibile definire con parole quali siano le pulsioni e i sommovimenti interiori che agitano la mente e l’inconscio dell’artista nel momento in cui produce un’opera essenzialmente non iconica, nella quale giocano un ruolo fondamentale energie emotive e psichismi più o meno sotterranei, dei quali lo stesso artefice sovente non è del tutto consapevole.

Da tale riflessione deriva l’inadeguatezza dei titoli partoriti dall’artista, che il più delle volte non sono altro che il frutto di una sua, del tutto personale e soggettiva interpretazione dell’opera, la cui vera essenza sembra sfuggire anche a lui stesso.

In base a tale assunto appare soluzione condivisibile il ricorso a indicazioni utili più che altro alla catalogazione e all’inquadramento nosografico delle opere, del tipo “composizione due… tre …  etc.“ (Kandinsky), ovvero  l’impiego di titoli semplicemente descrittivi, quali ad esempio “ Grigio con colori” (Accardi) o  “ oggetto ottico dinamico” (Dadamaino).

Per converso, il voler definire un’opera informale con un titolo a effetto, atto a compiacere il gusto e la curiosità del mercato, implica finalità quantomeno fuorvianti.

In sintesi estrema, etichettare con un qualsiasi titolo un‘opera informale/astratta, può configurarsi come un’operazione del tutto arbitraria, o nella migliore delle ipotesi, come una sorta di suggerimento finalizzato a condizionare il giudizio del collezionista o del mercante.

In realtà la superficie pittorica informale è scrittura in un linguaggio che andrebbe decodificato senza alcuna forma di intermediazione; lasciando libertà all’instaurarsi di un silenzioso dialogo interiore tra l’osservatore e l’opera stessa prescindendo dal titolo con cui il padre che l’ha concepita ha ritenuto doverla battezzare”.

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