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Società

Giovanni Germano, ricercatore siciliano conduce un importante studio sul tumore al colon-retto

La storia di un brillante ricercatore di origine siciliana qualche giorno prima di Marzo, il mese della consapevolezza del tumore al colon retto

Giovanni Germano nasce a Siracusa l’11 Marzo 1979.
Dopo il diploma al Liceo Scientifico O.M. Corbino della sua Siracusa, Giovanni Germano studia Scienze Biologiche, Università degli Studi di Perugia per poi iniziare il percorso di ricerca a Milano conseguendo un Dottorato in Immunologia di Base ed Applicata presso l’Università Vita e Salute San Raffaele.
Dal 2004 al 2006 Germano ottiene una Borsa di Studio presso l’Istituto Europeo di Oncologia di Veronesi, dove approfondisce gli studi sul melanoma, cercando di capire le origini molecolari della sua aggressività. Tra il 2006 e il 2011 è impegnato in un dottorato all’Istituto Clinico Humanitas di Milano dove nel laboratorio del Prof. Alberto Mantovani, studia il ruolo antitumorale di un farmaco naturale, già approvato in Europa per i sarcomi molli ed il tumore dell’ovaio.
Giovanni Germano prosegue la sua carriera all’estero con un postdottorato all’ospedale universitario di Zurigo dove fino al 2013 studia il ruolo di una specifica proteina nel modulare il sistema immunitario associato al tumore.  Nel 2014 Giovanni torna in Italia, chiamato dal Professor Alberto Bardelli, tra i massimi esperti mondiali nello studio del tumore al colon-retto. Nel laboratorio del professor Bardelli all’Università degli Studi di Torino e ora anche all’IFOM di Milano, centro di eccellenza e di richiamo internazionale, Giovanni Germano sta mettendo a frutto la sua lunga e articolata esperienza per studiare come trasformare un tumore da “freddo”, e pertanto refrattario al sistema immunitario, a “caldo” e cioè responsivo al sistema immunitario. Si tratta di una grande sfida nell’ambito della ricerca, che apre nuove prospettive terapeutiche a beneficio dei pazienti oncologici affetti da questa patologia. Tra gli studi a cui contribuito nel laboratorio Bardelli, XX portano la sua firma, di cui l’ultimo recentemente pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Cancer Cell, un’autorità in questo settore scientifico.

Ma chi è la persona dietro lo scienziato? Lo scopriamo con un’intervista in cui Giovanni Germano condivide la sua esperienza e la sua passione per la Scienza, le sue riflessioni e anche la passione per la sua Terra.

 

Perché hai scelto di intraprendere un percorso nell’ambito della ricerca?

Lo dice la parola stessa, per “ricercare”, scovare, conoscere ciò che c’è ma che nessuno è ancora riuscito o avuto il tempo di descrivere. Rendere noto ciò che è nascosto credo sia unico e non una prerogativa della ricerca dato che molti mestieri sono simili in questo. Penso al giornalista che porta a galla ciò che non è conosciuto a molti o l’ingegnere, così come l’architetto, che hanno il compito di immaginare e poi realizzare per rendere fruibile a tutti ciò che in una prima fase è solo in bozza. Ma penso anche ai grandi filosofi e scienziati che nell’antichità hanno abitato i miei luoghi natali, uno su tutti Archimede. All’ingresso del mio liceo c’era una statua immensa con Archimede che reggeva i suoi noti specchi e che osservava il nemico pronto a bruciare le sue navi. Ho una grande stima per gli scienziati di un tempo che con mezzi ridotti erano in grado di dare vita a delle genialità di alto valore. Essendo nato e cresciuto a Siracusa ho assorbito sin dalla mia infanzia una spinta atavica a “ricercare”, anche ispirato dai grandi del passato di cui la nostra cultura reca segni e memorie.

 

Era quello che sognavi di fare quando andavi a scuola?

Sono sempre stato interessato alle materie scientifiche e la geografia astronomica mi ha da sempre affascinato. Negli ultimi anni di scuola la medicina ha preso il sopravvento grazie anche ad un’enciclopedia immensa che mio padre aveva acquistato. La passione di mio padre per i libri è enciclopedica, tanto più che a un certo punto ha aperto una libreria nella nostra città. In casa avevo a disposizione una biblioteca che andava dalla raccolta di ricette culinarie alla storia dell’unità d’Italia di Indro Montanelli. Ad un certo punto però mi sono innamorato della citologia e di come le cellule siano una città in miniatura ma che puoi vedere solo con il microscopio elettronico. C’è la centrale energetica, ci sono gli operatori ecologici, c’è il palazzo della politica e la società che opera seguendo delle regole (forse un modello di città ideale). Insomma, tutto questo nell’infinitamente piccolo di una cellula, praticamente un miracolo di alta ingegneria cellulare.

 

Che rapporto mantieni con la tua terra di origine?

La terra d’origine manca: mi mancano gli odori ed i sapori della buona cucina ma mi mancano anche gli odori ed i sapori del passato, quelli che non torneranno più ma che mi hanno reso la persona che sono con molti difetti e, forse, qualche pregio. Guardare la mia città cambiata è disarmante, guardare le persone che l’hanno vissuta cambiate fisicamente dal tempo che passa è malinconico. Il capolavoro di Tornatore, Nuovo Cinema Paradiso, è il ritratto perfetto  per delle percezioni e dello stato d’animo  di  chi, come me, si stacca dalle proprie origini. Mi dicono io sia un siciliano anomalo, con atteggiamenti che negli stereotipi vengono classificati come più “settentrionali”,   del resto di fatto il periodo più lungo della mia vita l’ho trascorso lontano dalla Sicilia, che ho lasciato a 19 anni. Certe caratteristiche ancestrali però restano. Ad esempio, la mia inclinazione al silenzio:  parlo poco o meglio parlo quando devo farlo. Da siciliano ritengo che il silenzio abbia un peso e spesso più di parole dette solo per far parlare di sé. E questo concetto lo vivo tutti i giorni nell’ambito della ricerca, dove il silenzio è una componente fondamentale: ci vuole silenzio per avere idee, ci vuole silenzio nella paziente concentrazione sperimentale. Ma come per tutte le cose ci vuole anche equilibrio visto che parlare è fondamentale nel nostro mestiere. Parlare ti permettere di far conoscere alla comunità scientifica i tuoi studi, parlare ti permette di rendere noto ai non addetti ai lavori quello che stai facendo per rendere più consapevole la società. La ricerca sono tante ricerche messe insieme, sono più domande che si unificano in un’ipotesi e che necessita di un gruppo spesso multidisciplinare. Non smetterò mai di dire che la ricerca è un lavoro di insieme che non si conduce mai da soli, e ho la fortuna di poterla condurre con un gruppo eccezionale.

 

Nel tuo percorso di ricerca sei stato all’estero per poi tornare in Italia. Cosa ci puoi dire del tuo essere un “cervello di ritorno”?

Il mio percorso è stato variegato: Siracusa-Perugia-Milano-Zurigo-Torino-Milano. La tappa all’estero è stata un’esperienza fantastica perché mi ha aperto a nuove abitudini e nuovi schemi mentali. Consiglio a tutti i ricercatori e a tutti i giovani che stanno entrando nel mondo del lavoro di andar all’estero almeno 2-3 anni. Dopo due anni a Zurigo, sono tornato in Italia per raggiungere mia moglie che è medico neurologo: un lavoro impegnativo per cui la stimo e rispetto profondamente. Sono stato quindi felice e orgoglioso di fare una scelta lavorativa integrandola con quella familiare. Forse sarei potuto andare negli Stati Uniti a trascorrere un periodo sicuramente formativo ma ho  preferito cambiare i miei piani professionali per dare proprità alla mia famiglia. E’ stata una scelta forte, che per certi versi ha comportato comunque dei sacrifici, anche se ora sono ripagati dai risultati. Parlo di sacrifici per una constatazione tanto triste quanto oggettiva: in Italia alla professione di ricercatore non viene riconosciuto lo stesso valore che invece è garantito all’estero. Il mio lavoro di ricercatore all’estero è  equiparabile  a quello di  un collega clinico. In Italia invece spesso la percezioe è che il “ricercatore” non sia una vera e propria professione,  ma un momento di passaggio, quasi un prolungamento della vita universitaria. Il ricercatore in Italia viene considerato qualcuno che quando crescerà farà altro e che per il momento passa il suo tempo a divertirsi di scienza.  Invece dovrebbe essere consapevolezza più diffusa il fatto che quello che noi ricercatori costruiamo  è ciò su cui altri potranno ergersi per guardare oltre e per dare benefici a chi soffre nel caso della ricerca medica.

 

Quali sono le prospettive che immagini per il tuo futuro?

Rispondo con una provocazione: nonostante i successi come questo ultimo studio, non grandi prospettive, se l’Italia non investirà in chi ricerca. Credo di aver sentito questa frase un centinaio di volte, soprattutto in campagne elettorali. La ricerca non è sperpero di denaro (è vero ne serve tanto), la ricerca non è un passatempo, la ricerca è la chiave per il futuro senza la quale si andrà avanti per inerzia sfruttando ciò che di buono i ricercatori italiani faranno in paesi esteri. Qualcuno molto più grande di me diceva che non ci può essere cura senza ricerca. Io dico: non ci potrà essere Italia senza ricerca. Parlo di un Italia con la I maiuscola dove il progresso e la genialità dei giovani possano essere il traino per la staticità di oggi.  Credo fortemente che la ricerca sul cancro oggi sia e sarà influenzata non dai ricercatori o dal politico di turno ma dal cittadino comune. Il cittadino della porta accanto può contribuire, anche con poco, a finanziare progetti innovativi e trasformativi sulla carta per renderli poi delle ipotesi di lavoro reali ed utili alla comunità. Per superare i limiti di un’assenza di un piano politico strutturale in merito, oggi, per non perdere tempo ed essere utili ai nostri figli, serve l’aiuto immediato della persona che incontri per strada se non vogliamo che si arrivi troppo tardi.  Sarà solo un granello di sabbia? Non importa, perché quel granello, utile oppure meno, sarà stato messo comunque a disposizione del futuro.

 

Quali sono state le maggiori sfide che hai dovuto affrontare nel tuo percorso di ricerca?

I fallimenti sono tanti: scommetti su un’ipotesi che poi crolla perché quello che avevi immaginato non era solido. Nell’immediato pensi ad una sconfitta ma poi ti rendi conto che questo fa parte della ricerca e che,paradossalmente, sono proprio le sconfitte il motore del progresso scientifico. Un’ipotesi sbagliata non è un errore ma una scoperta scientifica che ti permetterà di andare oltre, magari cambiando strada.

Il lavoro di ricercatore comporta un impegno mentale di alto livello, ma purtroppo non permette mai di staccare la spina e questo alla fine può essere logorante. Ho passato delle notti in laboratorio tornando a casa la mattina perché un esperimento lungo prevedeva quelle tempistiche. Purtroppo, la frustrazione più grossa resta quella di fare un mestiere con prospettive incerte. Lavorare in ricerca è una sfida costante, la stabilizzazione per un ricercatore è merce rara. Questo da giovanissimi non costituisce un problema, ma superati i 40, pur senza aspirare al posto fisso di Checco Zalone, tutti abbiamo bisogno di una base su cui poter fare programmi familiari futuri. Questo mestiere ti spinge sempre avanti con le sue soddisfazioni lavorative, che sono rare ma quando capitano, come ora per me, ti fanno sentire in pace con te stesso e soprattutto con la comunità scientifica che hai contribuito a fare crescere nel tuo piccolo, nonostante tutto.

 

Cosa fai nel tempo libero? 

Onestamente? Ho pochissimo tempo libero e quello che rimane lo dedico a mia moglie e mia figlia con cui trascorro troppo poco tempo.

La mia vita familiare è strettamente legata a quella lavorativa. Volete sapere chi accompagnerà mia figlia all’asilo domani? Basta vedere l’agenda e se avrò una riunione in mattinata, sarà mia moglie ad accompagnarla. Si tratta di un esempio ma ne potrei fare tanti.

La cucina è una passione che mi permette di staccare la spina, almeno durante il week end. Ma sono ipercritico e quindi la ricerca della perfezione alle volte è frustrante anche in cucina. Quando riesco la domenica preparo qualcosa di siculo per la mia famiglia e coinvolgo Arianna che mi aiuta a cucinare.

In una vita che non prevede molto oltre alla Ricerca la mia squadra del cuore (che avendo trascorso diversi anni a Milano, guarda caso è il Milan) mi regala 90 intensi minuti ogni settimana per staccare momentaneamente la mente dal laboratorio.

 

Cosa vorresti insegnare a tua figlia sul valore della ricerca? e cosa per il suo futuro?

Quello che vorrei insegnare ad Arianna è di non aver paura di uscire dalla sua comfort zone e di scoprire ciò che non conosce perché, nella vita così come nel lavoro, rimanere nelle certezze oltre a non arricchirci non ci fa crescere. Scoprire ciò che non è noto non fa altro che aggiungere conoscenza al proprio bagaglio, cosa che la quotidianità sicura e protetta non può fare. E rischioso, è vero. e se dovesse andare male tutto crollerebbe ma almeno avrà provato a percorrere una strada nuova che solo tu lei ha deciso di intraprendere. Qualsiasi cosa vorrà fare, le auguro di non perdere mai la capacità di rischiare per conoscere cosa c’è oltre l’ostacolo, le auguro di essere dinamica e non legata a luoghi o cose (perché tutto ciò che abbiamo plasmato resterà in noi anche se non più materiale), le auguro di svegliarsi ogni giorno con il dubbio se andare a destra o a sinistra ma mai con la convinzione che la sua scelta sia stata già decisa da qualcuno che sta disegnando la vita al posto suo.

 

Quali interessi, hobby o sport hai coltivato nella vita? cosa ti hanno lasciato? 

Ho giocato a basket per qualche anno ed è stato molto utile. I fondamentali erano qualcosa che non avevo acquisito prima e per questo ho conquistato il soprannome di “Killer”: tanti falli, ma anche grande efficacia nel colpire.. L’esperienza nel basket mi ha fatto riflettere su quanto, nella vita e nella scienza, sia fondamentale essere complementari in squadra: c’è chi conosce meglio  le regole del gioco  e c’è chi, le conosce meno e guarda al problema con lo stupore di chi le ignora….Spesso sono queste persone che fanno le ipotesi più improbabili e creative.

Mi piacerebbe tornare in bicicletta come facevo quando ero più giovane. L’ho fatto in passato con una bici da corsa che mio padre mi comprò e che mi fece percorrere chilometri e chilometri in giro per la Sicilia per almeno 5 anni. Il ciclismo è formativo poiché sei solo con la sofferenza fisica e non c’è nessuno che possa spingerti, solo la tua forza fisica e di volontà. Spesso la ricerca è così poiché quando tutto gira male devi andare avanti per capire se ti sei perso qualcosa o se qualche aspetto non è stato completamente chiarito. Quindi pedala almeno fini al gran premio della montagna, poi si tireranno le somme, stai comunque andando avanti lungo il tragitto segnato dall’asfalto.

 

Com’è la la tua esperienza (seppur ancora iniziale)  in un centro di ricerca internazionale come IFOM?

Un campus scientifico di livello e da cui il sistema Italia dovrebbe solo imparare. Milano resta la città con più strutture in ambito di ricerca oncologica e sarebbe magnifico se altre città, medio-grandi, potessero fare lo stesso. Immaginate che network si creerebbe in Italia ed a beneficiarne sarebbe tutto il Paese. Tornando ad IFOM, ritengo sia ottima la qualità della ricerca e l’idea della multidisciplinarietà attraverso cui viene condotta. IFOM è una realtà che mette al centro i ricercatori, con un apparato di servizi che ruotano intorno a lroo per consentire di concentrarsi al massimo sulla propria ricerca,  con delle eccellenze come la cucina tecnica e  un laboratorio per le ricercatrici in gravidanza. Ci sono inoltre  aree di socializzazione extra lavorativa, una mensa a dir poco fantastica e un asilo nido bilingue convenzionato.

 

Sempre la tua ricerca: raccontala in 15 righe come se la raccontassi a uno studente di scuola media

Il cancro ha un grande nemico che è il sistema immunitario ed il cancro ha imparato a conoscerlo ed evitarlo. La mia ricerca di questi ultimi anni si è basata sullo studio di come aiutare il sistema immunitario a riconoscere il cancro, scovarlo ed attaccarlo. Una cellula tumorale per poter progredire deve crescere più delle altre e per far ciò si deve cambiare, modificare e rendere diversa. La diversità non è buona cosa per il sistema immunitario, perché anche un patogeno è novità per il nostro organismo e merita di essere attaccato dai nostri poliziotti che tutelano la nostra salute. Per questo motivo ognuno di noi ha nel corso della propria vita sicuramente sviluppato dei piccoli tumori che il sistema immunitario è riuscito ad eradicare. Altri tumori però riescono a superare il controllo del sistema immunitario attraverso vari meccanismi come ad esempio: a) non presentando le proprie generalità ai nostri poliziotti; b) confondendosi tra la folla insieme alle cellule sane; c) creando un ambiente che non consente ai poliziotti di entrare; d) addormentando le cellule di controllo così da poter crescere indisturbati.  Lo scopo della mia ricerca è stato il contrastare questi 4 punti e l’abbiamo fatto alterando geneticamente il tumore in laboratorio in maniera che potesse essere sempre più diverso e quindi più riconoscibile da parte del sistema immunitario. Siamo andati oltre, chiedendoci se farmaci antitumorali o elementi presenti in natura come la Vitamina C potessero fare lo stesso e magari selezionare tumori molti diversi, quindi potenziali patogeni, o potenziare l’azione del sistema immunitario. In questo studio c’è un esempio di come il ricercatore debba andare oltre i dogmi e guardare il problema da altri punti di osservazione. I meccanismi che riparano il DNA quando ci sono dei cambiamenti o degli errori è fondamentale perché il cancro non si sviluppi. Nonostante ciò, noi siamo andati nella direzione opposta e cioè abbiamo rotto il meccanismo di riparo per far fare al cancro molti più errori perché questi avrebbero creato ancora più novità per il sistema immunitario.

Posso senza dubbio dire che la diversità è la ricchezza di una società e non qualcosa da costringere tra i vincoli di una morale esasperata; abbiamo provato con la scienza, e per la scienza, che la diversità dei punti d’osservazione aiuta a guardare ad un problema con una prospettiva diversa e nel nostro caso a risolverlo nonostante tutti possano pensare che paradossalmente noi lo stiamo creando.

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