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Le valutazioni del movimento “Spazio No Ponte”, dopo l’incontro con la Commissione consiliare

Intendiamo opporci con fermezza all’avvio della cantierizzazione

Il tema dell’attraversamento stabile dello Stretto di Messina fa ormai parte della storia del nostro territorio, ma è in particolare negli ultimi decenni che il dibattito sulla sua realizzabilità e utilità ha interessato gli abitanti e ha investito la discussione politica in un ambito più vasto. Negli ultimi vent’anni di ponte sullo Stretto si è scritto e detto tanto. Con Berlusconi e la Legge Obiettivo la costruzione dell’infrastruttura è apparsa come cosa possibile.

Gli abitanti delle città dello Stretto, così, si sono divisi tra favorevoli e contrari. La stessa cosa hanno fatto i partiti, i sindacati, i giornalisti. E’ stato un continuo prendere posizione. Sempre dalla stessa parte, per alcuni. Cambiando punto di vista, per altri. Ci sono partiti che hanno cambiato posizione ripetutamente, condizionati come sono dagli equilibri politici del momento. Non c’è da sorprendersi (quando si è al governo è vantaggioso gestire flussi finanziari per sé e per le filiere di tecnici e aziende di riferimento, quando si è all’opposizione è utile capitalizzare il dissenso..), ma da tenere gli occhi aperti e auto-organizzarsi.

C’è stato un tempo in cui valeva l’assunto che l’opera l’avrebbero fatta i privati. Non c’era di che preoccuparsi: l’infrastruttura era un tale affare che ci sarebbe stata la corsa a finanziarlo. Ecco, dunque, che arrivavano ora i cinesi, ora i giapponesi, ora gli americani a fare proprio l’affare. Alla fine non si presentò nessuno. In questa nuova fase, dopo lo stop impresso dalla scelta del governo Monti di avviare le procedure per la messa in liquidazione della Stretto di Messina Spa, nessuno ha avuto dubbi: il ponte non può che farlo lo Stato, la sua valenza strategica è tale per cui l’investimento pubblico è giustificato dal ritorno in termini di ricadute economiche, sociali, trasportistiche, turistiche, ambientali. Questo nonostante si siano rivelate sbagliate, per esempio, tutte le previsioni di crescita del traffico su gomma, dal momento che dallo Stretto passano circa un milione di veicoli e centomila tir in meno rispetto a vent’anni fa. E che dire dell’associazione tra l’idea di “green” e il potenziale scavo di decine di chilometri di gallerie, o della produzione di un milione e mezzo di tonnellate di cemento e di 376.000 tonnellate di acciaio dell’acciaio (376.000 tonnellate) necessarie e costruire l’infrastruttura?

In una terra che vede bruciare decine di migliaia di ettari di bosco ogni estate, che vive sulla propria pelle la piaga del dissesto idrogeologico e i cui amministratori sanno benissimo di non riuscire a garantire nemmeno il diritto a disporre continuativamente dell’acqua corrente, ci vuole una certa faccia tosta a spacciare altro cemento, altri cantieri e altro acciaio come mezzi di salvaguardia ambientale.

C’è poi il tema dei posti di lavoro, sventolato dalla propaganda sì-ponte come una bandiera ma tutt’al più penzolante sulle teste di siciliani e calabresi come una spada di Damocle che incombe con la pressione di un ricatto al quale però sono in tante e tanti a volersi sottrarre. Ma vediamo aritmeticamente di che si tratta: quando leggiamo 100.000 posti di lavoro, non possiamo fare a meno di segnalare come si tratti di un numero del tutto inverosimile, che nasconde il “trucco” di nominare “posti di lavoro” come equivalente di “anni di lavoro”. In sostanza, il numero considerato deve essere diviso per gli anni di lavoro previsti. Significherebbe che se fossero 10 gli anni della cantierizzazione avremmo 10.000 posti di lavoro. Non esistono, in realtà, studi dettagliati su questo, ma nel progetto definitivo attualmente in aggiornamento sono segnalate 40.000 ula (unità di lavoro anno). Diciamo, dunque, 4/5000 posti di lavoro temporanei a fronte di quelli a tempo indeterminato che potrebbero perdersi nella navigazione.

La nostra contrarietà ha molteplici ragioni: ma chi utilizza questo argomento facendo leva sulla questione occupazionale dovrebbe ammettere che il gioco non vale la candela.

Secondo il Rapporto 2018 sui tempi di realizzazione delle opere pubbliche redatto dall’Agenzia per la Coesione Territoriale le infrastrutture dal costo superiore a 100 milioni di euro vengono completate in media in 15,7 anni, così suddivisi: 6,4 per la progettazione, 1,7 per l’affidamento e 7,7 per la realizzazione. La fase in cui ci troviamo adesso per ciò che concerne la progettazione e costruzione del ponte sullo Stretto è quella della cosiddetta “reviviscenza del contratto”. In sostanza, la legge di conversione del Decreto ponte prevede che si superi la “caducazione” del contratto operata dal Governo Monti e la messa in liquidazione della Società concessionaria Stretto di Messina Spa attraverso un meccanismo che fa “resuscitare” i soggetti e le condizioni precedenti la cancellazione dell’opera. Operazione, questa, che ha generato non pochi dubbi di legittimità visto che il General Contractor cui progettazione e costruzione andrebbero affidate non è del tutto sovrapponibile a quello che ha vinto la gara. In primo luogo la società capofila (Impregilo) oggi non esiste più e Webuild, che la contiene, è il frutto di una serie di fusioni di società che prima non facevano parte dell’associazione d’imprese vincitrice della gara o che vi partecipavano autonomamente. Il paradosso, poi, è che di Webuild fa parte oggi Astaldi che ai tempi della gara era capofila della cordata competitor. L’importo complessivo della gara, inoltre, è più che triplicato, passando dai 3,9 miliardi di euro del 2005 ai circa 15 di oggi.

Sebbene il ponte sia sempre stato divisivo tra gli abitanti dell’area dello Stretto, sugli organi di stampa si è quasi sempre provato a dimostrare un largo consenso intorno all’infrastruttura: ma, nonostante il tempo e le risorse economiche tra le due parti siano incommensurabili, le manifestazioni no ponte si sono puntualmente presentate come molto partecipate e il sentire comune dice di una larga ostilità all’opera. Il conflitto intorno al ponte, insomma, rimane ancora cosa viva, rimane ancora nei nostri territori ciò che più mobilita. Perché quel conflitto parla direttamente della vita di chi abita le città dello Stretto, parla della storia delle comunità, del paesaggio, della cultura, dell’uso delle risorse.

Siamo ora a uno snodo decisivo: il cronoprogramma che si è dato il Governo è serratissimo e le risorse investite nella Legge di Bilancio per l’avvio dei lavori di realizzazione dell’opera stanno a dimostrare che c’è tutta l’intenzione di procedere a una nuova progettazione e all’avvio dei cantieri.

Per la nostra comunità militante, all’interno della quale si intrecciano i percorsi di diverse generazioni di attivisti, non è mai stato fondamentale valutare tecnicisticamente i pro e i contro dell’opera: nel corso della nostra esperienza, abbiamo inoltre maturato sempre più intensamente la convinzione che la progettazione e la costruzione del Ponte sullo Stretto facciano parte di un meccanismo all’interno del quale la realizzazione dell’opera non rientra tra i primi obiettivi. Abbiamo riassunto questo concetto nello slogan “Il ponte lo stanno già facendo”, cui si accompagna la consapevolezza che i sostenitori dell’infrastruttura stiano “preparando con cura una ulteriore incompiuta”. Abbiamo chiamato questo meccanismo “dispositivo politico-finanziario”, un intreccio di discorsi implementati dai tecnici che di esso si nutrono e che in esso si riproducono. Il ponte sullo Stretto è un progetto senza opera poiché l’opera non è necessaria per costruire le campagne elettorali, l’opera non è necessaria per partecipare all’iter progettuale, l’opera non è necessaria per aspirare a farsene voce nel mercato della comunicazione. Dietro il “senza il ponte niente” sta tutto il cinismo della classe dirigente locale fatta da carrieristi che godono dei loro privilegi in cambio della loro acquiescenza alle politiche nazionali.

Noi non abbiamo e non abbiamo mai avuto una idea della battaglia contro il Ponte sullo Stretto che non fosse connessa con le dinamiche sociali, che non fosse intersezionale (non avesse, cioè, a che fare con una più generale battaglia in difesa dei territori e con le altre lotte sociali) e che non fosse nelle sue modalità orizzontale e critica delle forme delegate della politica.

Per questo lo Spazio No ponte, luogo che vorremmo contribuisse ad organizzare la difesa della città di Messina dalla devastazione dei cantieri, è aperto a tutti gli abitanti che vorranno, a titolo strettamente individuale e collettivamente, promuovere attività di sostegno alle mobilitazioni. Mobilitazioni che consideriamo strumento centrale della lotta e per la cui efficacia intendiamo cooperare con tutte le individualità che vogliono avere voce in capitolo sul proprio destino, con le altre espressioni del movimento No ponte e con ogni movimento che raccolga le istanze provenienti dal basso contro i progetti predatori ordìti dall’alto. La nostra bussola è una visione di città, di territorio e di rapporti sociali altra rispetto al carattere estrattitivista delle Grandi Opere.

Intendiamo opporci con fermezza all’avvio della cantierizzazione perché in primo luogo questa colpirebbe centinaia di famiglie che dovrebbero abbandonare le loro case, ma, in generale, sarebbero centinaia di migliaia di persone a subirne le conseguenze dacché i cantieri si prevede siano distribuiti in tutto il territorio urbano. E’ questo, forse, il carattere più peculiare del ponte come grande opera, il suo essere calata nel pieno centro delle città. Solo per citare il lato siciliano, i cantieri operativi (aree attrezzate per fornire supporto alle attività produttive, con strutture, impianti e aree di deposito di materiali) saranno undici: Faro, Curcuraci, Pace, due all’Annunziata, Ganzirri, Papardo, Europa, Contesse, Villafranca Tirrena e Saponara. I cantieri logistici (veri e propri villaggi che serviranno a dare alloggio al personale impiegato nei cantieri operativi e a fornire logistico alle attività per la direzione e la gestione tecnico-amministrativa dei cantieri), invece, saranno cinque: Ganzirri, Magnolia (Torrente Pace), Contesse, Annunziata e Villafranca Tirrena. Si tratta di una movimentazione di mezzi per il trasporto di personale, attrezzature e inerti davvero impressionante. Per quanto riguarda la città di Messina, solo gli inerti generati nel corso dei lavori determineranno un traffico corrispondente a circa 100 mezzi per ora.

Considerando che la zona Nord della nostra città, quella più pesantemente interessata dai lavori, ha a disposizione due sole arterie stradali, una di queste sarà interessata costantemente da un traffico intenso di mezzi pesanti: e se si fa riferimento ai disagi fisiologici di una città dalla viabilità caotica e a quanto questa sia stata ulteriormente rallentata da piccoli cantieri nel recente passato, si può immaginare cosa accadrebbe..

Ci si troverebbe, di fatto, di fronte a un vero e proprio sequestro della città.

Si tratta di una consapevolezza che appartiene ormai a gran parte degli abitanti ed è ciò che, probabilmente, genera e sempre più genererà ribellione: la posta in gioco infatti è la vita quotidiana dei messinesi, che sarebbe pesantemente compromessa. Questa considerazione ci è sembrato sia stata acquisita anche dall’amministrazione comunale: nell’incontro tra i comitati e il sindaco Federico Basile è stata confermata da quest’ultimo la sua totale emarginazione non solo dai processi decisionali, ma persino dai canali informativi; al punto tale che l’ente locale non è stato coinvolto neanche per le materie di propria competenza.

Questo aspetto è di fondamentale importanza per la Giunta comunale e l’assemblea elettiva poiché, pur essendo venuto ormai meno il carattere rappresentativo di questi istituti (per la sottrazione di molte competenze alle autonomie locali e per la dimensione dell’astensionismo), di fatto i cittadini fanno riferimento al Comune e ai suoi organismi per gli aspetti che riguardano la vivibilità della città e sarà a questi che indirizzeranno la propria critica e la propria rabbia: per aver ceduto lo spazio urbano agli interessi delle centrali del cemento. Lo scenario che si prospetta è dunque quello di una coesistenza stretta tra vissuto cittadino e cantiere, tra persone e camion, tra biografie umane e processo industriale, uno scenario che non può che prefigurare, soprattutto in virtù della durata prevista per i cantieri, una lunga fase di conflitto nel bel mezzo delle città. I cantieri dovranno, dunque, prevedere una “difesa”, come sempre avviene in questi casi. Non c’è alcun dubbio che si va incontro a un processo di militarizzazione delle città.

C’è un solo antidoto a questa tragedia annunciata ed è la lotta no ponte. Il no al ponte, senza se e senza ma, è stato tendenziosamente trattato come la manifestazione di un’ideologia negativa, ma rappresenta, al contrario, l’unica apertura verso il futuro, la più forte allusione al un sogno di una cosa per la quale varrebbe ancora la pena di battersi.

Foto di Antonio De Felice

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