Messina si svuota, lentamente ma inesorabilmente. In cinque anni, diecimila abitanti in meno: come se Taormina si fosse dissolta nel nulla. Ma ciò che colpisce non è solo la perdita numerica — fredda, statistica, aritmetica — bensì quella simbolica: la sensazione che la città non riesca più a trattenere la vita, a generare futuro. È una ferita che non riguarda soltanto i registri anagrafici, ma la sostanza stessa del vivere collettivo.
Il report “Messina in cifre 2024” del Comune lo dice chiaramente: la popolazione continua a calare, e non solo per chi parte. Il saldo naturale — cioè la differenza tra nati e morti — è negativo, mentre il saldo migratorio, sorprendentemente, è positivo. Significa che altri arrivano, mentre i messinesi se ne vanno. Che la città che molti abbandonano è la stessa che altri, venendo da lontano, scelgono come luogo di vita e di speranza.
Un paradosso che racconta molto più di mille grafici. Messina non è solo una città che perde abitanti, ma una città che ha smarrito il suo racconto, la propria fiducia nel domani. Il vero dramma non è lo spopolamento fisico, ma quello culturale: l’abitudine al declino, la rassegnazione travestita da realismo, la fuga dei giovani vissuta come destino ineluttabile.
È una condizione che accomuna molte realtà del Sud: abbastanza vive da non morire, ma troppo stanche per rinascere. Eppure, proprio in quel saldo migratorio positivo — timido ma reale — si intravede un segnale inatteso: c’è chi sceglie Messina, chi la considera ancora un approdo, chi vi scorge un’occasione. Sono nuovi cittadini, portatori di altre energie, di altri sguardi, forse più capaci di credere in ciò che noi abbiamo smesso di sognare.
Ma perché questo seme attecchisca, serve una visione che vada oltre la contabilità demografica. Servono politiche culturali e civili capaci di restituire significato al verbo restare e dignità al verbo accogliere. Non bastano i numeri: occorre un progetto di città, un immaginario che renda di nuovo desiderabile vivere qui, mettere radici, generare futuro.
La domanda che incombe è semplice e feroce: chi sarà davvero “di Messina” tra vent’anni? Forse non chi vi è nato, ma chi avrà scelto di restare, di costruire, di credere.
E in quella scelta, forse, si nasconde la vera rinascita di una città che da troppo tempo si guarda vivere, invece di ricominciare a vivere davvero.










